Da alcuni anni collaboro con le scuole primarie e secondarie cittadine, per fare conoscere ai ragazzi il dialetto e le nostre tradizioni millenarie, che purtroppo si stanno perdendo. Prima delle festività Natalizie mi trovavo in una prima media, e stavo illustrando com’era la vita dei bambini ai miei tempi, quando la giovane insegnante che era presente in aula, mi si avvicinò, e con aria imbarazzata mi disse sottovoce” Scusi, noi vorremmo che lei ci raccontasse la realtà del tempo, non una favola.” Questo a dimostrazione di come sia incredibile per le nuove generazioni la vita quotidiana di appena cinquanta anni fa. L’Italia era un paese prevalentemente agricolo, non esisteva la televisione, i computer, i telefonini, le auto erano rarissime, per scaldare le case si usavano i caminetti o le stufe a legna, per cucinare, i fornelli in muratura alimentati a carbone. La zona pianeggiante che da Carrara scende verso Marina, che oggi è completamente coperta da nuove costruzioni, era punteggiata da casupole rurali, abitate da numerose famiglie, in condizioni igienico sanitarie e abitative impensabili per gli standard attuali. L’attività principale era l’agricoltura, svolta quasi prevalentemente in mezzadria, ma esisteva anche qualche piccolo appezzamento di terreno coltivato dai proprietari. La Società del tempo era quasi autosufficiente, per quello che riguardava i bisogni primari, per il resto, era talmente basso lo standard di vita, e non esistendo pietre di paragone con altre realtà sociali, che ci si accontentava allegramente di quel poco che avevamo. Esisteva però una fortissima solidarietà tra le famiglie, sia per quanto riguardava il lavoro nei campi, ma soprattutto per dare assistenza a quei nuclei famigliari messi in difficoltà da lutti o malattie, cosa purtroppo molto frequente a quei tempi. Le attività rurali erano divise in due grandi gruppi secondo le stagioni, quelle di “fuori” e quelle di ”dentro”, com’erano diversi i modi di esecuzione, dove alcune erano eseguite solo dai membri della famiglia, mentre altre comportavano l’aiuto e la partecipazione di buona parte del vicinato. Il periodo dell’anno di maggiore attività era senza dubbio l’autunno, dove fra tutti i lavori da svolgere in collettività fuori, vi era la vendemmia, seguita poi dalla raccolta del granoturco e dalla successiva “scartozera” (eliminazione delle brattee) e sgranatura. Io ricordo ancora con grande piacere e una punta di nostalgia questa lavorazione che avveniva di sera nell’aia. Ci si sedeva in cerchio con al centro il grande mucchio di pannocchie, ancora “vestite”, il fattore, piantava un chiodo sulla panca, dove era seduto, e vi strusciava sopra la pannocchia per rompere il cartoccio, quindi la gettava verso di noi, che provvedevamo a liberarla del tutto. Con le brattee si facevano le imbottiture per i materassi, mentre quelle dell’anno prima, erano tolte e usate per la lettiera degli animali. Le pannocchie così mondate, dopo alcuni giorni di asciugatura al sole passavano alla sgranatura, previa l’eliminazione tramite il solito chiodo di una fila di chicchi. Il mais veniva a mano, a mano, travasato nei “bigonzi” (piccoli tini in legno) per essere messo al sole la mattina dopo, mentre i “pitorz’li” (tutoli,) erano usati come …”carta igienica” nel luogo comodo comune. La scartozera e la successiva sgranatura, erano attività ben viste anche dai giovani di entrambi i sessi, perché permetteva loro di frequentarsi e di scherzare senza incorrere nelle ire dei rispettivi genitori. Moltissimi amori nacquero proprio così, in un’aia, in una tiepida serata settembrina.
Un’altra attività che piaceva molto a noi bambini era l’uccisione del maiale. Questa avveniva a dicembre o gennaio, ed era considerata di dentro, perché avveniva in gran parte nella cucina della casa. Il tempo della sua esecuzione era influenzato molto dalle condizioni climatiche, perché, più era freddo e meglio si sarebbe conservata la carne, perché al tempo i frigoriferi non erano ancora stati inventati. Spesso per risparmiare sui costi, molti maiali di diversi proprietari erano uccisi e lavorati nello stesso luogo, in modo da poter sfruttare gli stessi attrezzi, ma soprattutto davano la possibilità di usufruire dell’opera dello stesso norcino a un prezzo forfettario. Oggi, il metodo che si usava per uccidere il maiale sarebbe giudicato barbaro, e sicuramente lo era, ma questo era codificato da secoli di credenze e superstizioni, e creduto necessario per proteggere, e fare andare a buon fine un’operazione, che rappresentava il labile confine tra un anno di relativa abbondanza, o di fame nera, per un intero nucleo famigliare. Si trascinava a viva forza il maiale fuori dalla porcilaia, quindi tre o quattro uomini dopo avergli legato le zampe posteriori e il muso lo gettavano a terra sul fianco destro, quindi il norcino gli infilava la “coratella” una specie di spiedo provvisto di un rudimentale manico, sotto la zampa anteriore sinistra dove più o meno si trovava il cuore. Le urla della povera bestia erano udibili da chilometri, mentre il norcino roteava l’attrezzo all’interno del corpo dell’animale per aggravare al massimo la ferita. Nella credenza popolare queste urla erano necessarie, perché facevano defluire il sangue dai tessuti, rendendo la carne più bianca. Quando era ancora agonizzante lo si issava su una scala posta in verticale e lo si sgozzava raccogliendo il sangue per fare il maligat (buristo) e il sanguinaz (sanguinaccio). Dopo averlo pelato con un coltello affilato e acqua bollente, si passava alla sua squartatura, e macinatura della carne, per fare salsicce e salumi, operazione questa che avveniva in casa. Era questo il momento tanto atteso da noi bambini, perché era possibile porre delle polpette di carne prelevate dall’impasto a cuocere sulle pietre del camino, e gustarle così, a scottadito.
Nelle fredde serate invernali, quando veniva notte presto, dopo una cena frugale, ci si recava “a vegia” (a veglia) dai vicini. Ci si radunava nella stanza più calda della casa, quasi sempre la stalla, perché gli animali producevano un dolce tepore, e lì alla luce di una lanterna a petrolio, o a carburo, ci si raccontava gli avvenimenti della giornata. I ragazzi e le ragazze più grandi, cercavano di appartarsi negli angoli bui, per rubare un fugace contatto, magari solo con le mani, mentre a noi bambini, il nonno, magari mentre intrecciava un canestro di vimini, o la nonna, mentre sferruzzava qualcosa a maglia, ci raccontavano le “fole” (le favole.)
Sono ricordi ormai così lontani che cominciano a sbiadire nella mia mente, tanto che a volte penso che siano solo il frutto della mia fantasia, proprio come le favole; ma di sicuro queste erano favole vere.
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