Come ripetuto più volte, Carrara, è stata in epoca medievale, terra di conquista e di dominazione da parte di svariati regnanti. Questo avveniva non solo per la sua posizione strategica, ma anche per sfruttare il suo bene più prezioso; il marmo. E’ evidente che a questi dominatori, poco o nulla importasse del benessere economico delle popolazioni da loro sottomesse, che complice anche l’asprezza del territorio, erano spesso costrette a vivere al limite della sopravvivenza. Anche il sistema sociale del tempo, estremamente chiuso dalle Vicinie, non aiutava il libero scambio dei prodotti alimentari più comuni, cosicché, ogni villaggio era praticamente un’isola autosufficiente, con tutte le limitazioni che questa situazione comportava. Mentre nella costa, pur soggetta alla malaria e agli attacchi dei pirati, si poteva coltivare cereali e ortaggi, in quantità accettabile, al monte, ossia in quella zona collinare non interessata all’estrazione del marmo, l’unica attività possibile era la pastorizia. Anche quest’attività era fortemente limitata dall’asprezza del territorio, si ricco di pascoli, ma coperto anche da fitti boschi, che mal si prestavano al sostentamento degli armenti. Nacque così, una pastorizia anomala, presente solo nel nostro territorio, che pur con immensi sacrifici, permetteva la sopravvivenza della gente. Per fare questo fu necessario, anche se inconsapevolmente, selezionare una razza di pecora che potesse nutrirsi senza problemi anche del “paler”, un tipo di erba, dura e fibrosa comunissima nei nostri monti, e che producesse una gran quantità di latte, necessario a fare il formaggio, che era alla base dell’alimentazione del tempo, e soprattutto che sapesse muoversi con disinvoltura sui terreni con forti pendenze. Ebbe così origine la pecora “massese”. Le prime notizie certe sull’esistenza di questa razza autoctona, ci sono date in un documento del 1400, che certifica una forte presenza di questi animali nella valle del Frigido, e più specificatamente a Forno. Grande produttrice di latte, possiede il vello nero, una caratterista genetica unica, che pare sia avvenuta per sfruttare al meglio lo scarso irraggiamento solare di quella zona, soprattutto nei mesi invernali, è di taglia media, cosa che la avvantaggia sia in agilità, ma soprattutto nella quantità di erba necessaria per il suo sostentamento, è anche prolifica, riuscendo a fare tre parti in due anni.
Come abbiamo accennato in precedenza, la pastorizia Apuana medievale, è per certi versi anomala, perché non prevede transumanze, né grandi greggi, ma pochi capi in possesso di una miriade di proprietari, che sfruttano un territorio inadatto all’agricoltura. Mentre il giorno era passato al pascolo, la sera il piccolo gregge era ricoverato in ovili al chiuso, che oltre a permettere la mungitura, rendeva possibile la raccolta del letame, una risorsa importantissima per un’agricoltura di sopravivenza limitata a poche zone terrazzate. Per sfruttare ancora meglio le magre risorse di un territorio così aspro e scosceso, nel corso dei secoli fu selezionata anche una razza di capra, oggi purtroppo a rischio di estinzione, che addirittura non è neppure segnata tra le razze esistenti, tanto il loro numero è esiguo; la capra apuana. Questa capra è caratterizzata dal pelo raso, e colorazioni che vanno dal bianco al fulvo, è una buona produttrice di latte, ma al tempo era usata in prevalenza per tenere aperti, e dove possibile, incrementare, le radure, vista la sua abitudine a cibarsi della corteccia e dei teneri germogli degli alberi. Per quasi tutto il medioevo, la capra è stata considerata pochissimo, tanto che per comprare una vacca, erano necessarie almeno venti capre, ma per il popolo, erano indispensabili, perché di lei si utilizzava tutto, dalla carne al latte, dal pelo, alla pelle, che nei monasteri era trasformata nella preziosissima pergamena. Al seguito di questi piccolissimi greggi di ovini e caprini, erano spesso presenti uno o due maiali, che si cibavano soprattutto di ghiande o altre bacche, ma che avevano il compito di “pulire” il terreno dai serpenti, al tempo visti come veri e propri messaggeri del Diavolo. Gli ovini e caprini nell’era medievale erano considerati le mucche dei poveri, per la facilità di allevamento, a fronte del sostentamento che se ne poteva ricavare, in pratica a costo zero, anzi si usavano per pulire i terreni, ad esempio, gli uliveti prima dei raccolti. La pastorizia Apuana, con il prosciugamento, e la bonifica delle zone di costa, ebbe un brusco incremento, che vide la nascita d’imponenti greggi, anche se non paragonabili a quelli esistenti all’interno della Maremma toscana. Aumentò anche in modo esponenziale la produzione di lana, tanto che vi fu anche una sorta di “esportazione” della stessa verso Firenze, al tempo uno dei maggiori centri di produzione di filati di questo materiale. Questo piccolo miracolo economico durò fino agli inizi del 1900, quando subì un brusco ridimensionamento a causa dei primi abbandoni della campagna per le migrazioni verso l’America.
Oggi nella zona di Carrara, la pastorizia è praticamente scomparsa, e anche sull’intero territorio Nazionale, sta avendo delle serie difficoltà di ordine economico, in parte riconducibili al passato. Le razze italiane, infatti, sono state nel corso dei secoli selezionate per ottenere la massima produzione di latte, non curando la qualità della lana, inoltre, nella nostra tradizione alimentare non è presente il consumo di carne di pecora, escluso la macellazione degli agnelli nel periodo Pasquale. La nostra pastorizia era basata perciò sulla produzione di latticini di alta qualità, molto apprezzati soprattutto all’estero, ottenuta con l’alimentazione delle greggi allo stato brado, quindi a costo zero. Purtroppo la globalizzazione del mercato, l’impossibilità di transumanza dell’allevamento all’aperto, e l’introduzione di leggi che permettono una certa libertà nell’importazione di latte dall’estero, ha causato una drastica riduzione del costo di questo pagato ai pastori. Ad aggravare questa situazione si è aggiunto il costo elevato dei mangimi, necessari per l’allevamento al chiuso, e la concorrenza sleale di commercianti esteri senza scrupoli, che vendono a prezzi stracciati formaggi d’incerta provenienza venduti come “pecorino italiano”. Non ultimo, vi è il problema della tosatura annuale delle pecore, con un costo di circa 2 € a capo, mentre la lana che se ne ricava, giudicata di pessima qualità, deve essere distrutta come rifiuto speciale, con un considerevole aggravio dei costi. La Nuova Zelanda con i suoi settanta milioni di capi di razza merino, ha praticamente il monopolio mondiale della lana, e della carne, mettendo in seria difficoltà la pastorizia Italiana, attività vecchia di secoli, che purtroppo sta conoscendo un declino inesorabile.
Spero ardentemente che le Autorità competenti possano porre un qualche rimedio a una situazione catastrofica, che porterebbe non solo alla totale scomparsa dell’attività pastorale, ma che segnerebbe un impoverimento irreversibile del patrimonio genetico ovino, e caprino italiano.
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