Quando l’Italia era un paese a vocazione prevalentemente agricola, e non erano ancora disponibili i materiali artificiali di oggi, era con lo sfruttamento delle risorse naturali presenti nell’ambiente che si costruivano gli oggetti di uso comune per la vita quotidiana. Boscaioli, carbonai, pastori, erano gli attori principali del processo produttivo del tempo, fornendo con il loro lavoro le materie prime principali, ossia legno da costruzione, combustibile, e lana. Se queste figure professionali potevano essere considerate alla stregua degli operai dell’industria pesante attuale, una miriade di artigiani si occupava di costruire una serie quasi infinita di “sottoprodotti” ma non per questo meno importanti. Uno di questi era il cestaio. Quest’artigiano fabbricava una vasta serie di oggetti, che non erano gli stessi in ogni regione Italiana, ma che si adeguavano agli stili di vita, e le attività commerciali del luogo. Per comodità di narrazione, ci occuperemo soltanto dei cestai che operavano in Toscana. Nella nostra zona, anche per facilità di reperimento delle materie prime, il maggior numero di questi artigiani, viveva e lavorava nella piana di Luni, dove alcuni di questi hanno continuato la loro attività fino agli anni ottanta.
Quando abitavo a Monteverde, un mio vicino di casa faceva proprio questo mestiere. Tutti lo chiamavano Felì, ed io non ho mai saputo il suo nome completo, lavorava nei pressi della Battilana, dove si recava in bicicletta ogni giorno, indipendentemente dalle condizioni atmosferiche, e, “sopr’ora” (dopo il lavoro) per pochi soldi impagliava sedie, o fabbricava le “ziste” e i “capagni” (ceste e panieri) per tutto il vicinato. Per svolgere il proprio lavoro, il cestaio, in dialetto “’l’mpaiator” (l’impagliatore) aveva bisogno di materiali presenti in natura, che adesso andremo a elencare: le canne, le cannelle di palude, i giunchi, i salici (vimini), e l’erba sala. Mentre molti di questi materiali si potevano prelevare a costo zero, come ad esempio i giunchi, e le cannelle, per salici, erba sala, e canne, invece, era stipulato addirittura un contratto di “affitto” con i proprietari dei terreni dove queste piante erano presenti. Il taglio delle canne avveniva d’inverno, a luna buona, quando erano perfettamente mature, con le migliori si eseguivano gli “intrecci” per le incannicciate, che erano poi venduti ai muratori, mentre il resto serviva per fare le nervature per ceste e canestri a uso agricolo. Con le cannelle venivano realizzati gli “stuoini” delle rozze tende per finestre, che, pitturate di verde, sostituivano le attuali persiane. I salici invece venivano capitozzati alla fine dell’autunno, questa drastica potatura faceva si che la primavera successiva, la pianta emettesse dei rami lunghi e sottili, e con tonalità di colore diverse. Quelli con colorazione più comuni venivano usati per rivestire damigiane e fabbricare cesti o canestri, mentre quelli con i colori più belli servivano per confezionare, culle da neonati, o oggetti particolari come il “prete” un attrezzo che serviva per appendere lo scaldino pieno di carbonella, e scaldare il letto nelle notti invernali. L’erba sala intrecciata a formare delle cordicelle, serviva per impagliare le sedie, mentre sciolta era usata soprattutto per “vestire” i fiaschi. Qualche cestaio si era specializzato in prodotti per il mare, i pescatori di Marina di Carrara, fino a tutti gli anni 50, usavano ancora le nasse in giunco o in vimini, che oltre a essere molto flessibili e resistenti, estremamente leggere, e costare poco, essendo fatte con un materiale naturale, non allarmavano il pesce. Anche ai pastori era necessario il lavoro del cestaio, perché facevano grande uso dei “canestrini” contenitori di diverse forme usati per fare la ricotta. I ferri del mestiere del cestaio era abbastanza rudimentali, la cui costruzione era spesso “fai da te” secondo l’esperienza di ognuno. Oltre all’onnipresente pennato, uno di questi era chiamato il dialetto”’l sgusator” (lo scorzatore) ne esistevano due versioni, ambedue avevano una lama semicircolare, ma mentre uno aveva solo un manico, l’altro ne aveva due, per poterlo usare a due mani. Serviva prevalentemente per pulire le canne, e i grossi rami di salice dai rami più piccoli. Vi era poi lo”’l squartin” (lo squartino), questo era costituito da una specie di croce affilata con due manici, e serviva a sezionare le canne in senso longitudinale.
Seguivano poi una nutrita serie di coltelli e cesoie di varie fogge e misure. Pochi sanno che i cestai della nostra zona erano considerati gli artefici del benessere economico della vicina Riviera dei Fiori. Questa storia quasi sconosciuta, è frutto dell’ingegno carrarino, e della necessità di molti padri di famiglia di portare a casa un pezzo di pane. Appena finita la seconda guerra mondiale, la situazione economica era semplicemente disperata, molti lavori considerati voluttuari come il cestaio, erano in declino, così molti di questi artigiani pensarono all’emigrazione. Proprio in quel periodo nella Riviera di Ponente si cercava di mettere in piedi quella, che più tardi sarebbe diventata un’industria fiorente: la floricultura. Il problema maggiore dei produttori di fiori, erano gli imballaggi, dovevano essere in grado di garantire che i fiori recisi, arrivassero integri anche a grandi distanze. Non sappiamo chi fu il primo cestaio carrarino, che trovandosi a Genova per l’imbarco, pensò di costruire delle ceste di vimini con coperchio, ma l’idea funzionò, così molti cestai, prima i toscani, e poi gli emiliani, trovarono una nuova opportunità di lavoro, contribuendo in modo significativo allo sviluppo dell’attività florovivaistica. Un capitolo a parte meritano le “fiascaie”. Questa sorta di cestaie al femminile erano attive nelle zone tradizionali del Chianti, e per secoli si sono accollate il gravoso compito di rivestire i fiaschi con l’erba sala, un’erba palustre coltivata appositamente nel padule di Fucecchio. E’ stato calcolato che nel 1920 le fiascaie attive in Toscana fossero circa 30.000, svolgevano il lavoro al proprio domicilio, e provvedevano esse stesse, a scadenze stabilite, a recarsi, con carretti spinti a mano, presso una delle 1200 vetrerie attive a quei tempi, per ritirare i fiaschi nudi da rivestire. Alcune di loro a metà degli anni sessanta, dopo il drastico ridimensionamento dell’uso dei fiaschi per il confezionamento del vino, si riciclarono in quel di Pescia, costruendo anche esse ceste per il trasporto di fiori, come nella Riviera di Ponente.
L’avvento di macchine impagliatrici, e soprattutto di quell’orrore che è l’impagliatura di plastica, decretò la fine definitiva di questo antico mestiere. Le ultime fiascaie hanno cessato l’attività nel Comune di Montelupo Fiorentino, nel 1985. Così, il cestaio, un mestiere antico, ad impatto ambientale zero, è andato perduto per sempre. Oggi si cerca di farlo rivivere, ma la perdita di un sapere ricco di secoli d’esperienza, non è certamente facile da recuperare. Un dato dovrebbe farci riflettere; questi antichi, e considerati ignoranti artigiani, in quasi mille anni di attività ci hanno consegnato un ambiente praticamente integro. Mentre la plastica che riveste un fiasco moderno impiegherà più di 1000 anni per degradarsi. E saremo noi gli uomini evoluti e moderni?
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