Per millenni, la caccia ha rappresentato per la specie umana una pratica indispensabile, per garantirsi l’apporto di proteine necessarie alla sopravvivenza.
Ma quando l’uomo imparò i rudimenti dell’agricoltura, e della pastorizia, questa cominciò a perdere sempre più la sua importanza, fino quasi a scomparire in alcune popolazioni, o a rivestire caratteri fortemente simbolici in altre.
I Romani, ad esempio, consideravano la caccia come una pratica stupida, ma necessaria, per tenere sotto controllo le popolazioni di animali che devastavano i raccolti, la consideravano talmente disdicevole che ne affidavano la pratica a cacciatori professionisti, reclutati tra gli schiavi. Erano però dei veri buongustai, e un banchetto di gala non poteva considerarsi tale, senza parecchie portate di selvaggina, in particolar modo uccelli. Per procurarseli, tutte le famiglie patrizie adibivano grandi estensioni dei loro possedimenti alla loro cattura, che avveniva tramite panie, ossia con l’uso di ramoscelli cosparsi di vischio posti accanto a gabbie contenenti richiami vivi, o con reti dette ragne, sistemate accanto ai posatoi notturni. Gli uccelli catturati vivi, venivano posti in grandi voliere, e super alimentati, con miglio e zibibbo inzuppati nel latte, pastoni di fichi secchi, mirto, ginepro e tuorli d’uovo, per farli ingrassare a dismisura, per finire poi come pietanza speciale nei loro banchetti. Una cronaca del tempo ci dice che un tal Eliogabolo, adibiva più di duecento schiavi alla cattura degli uccelli, e alla cura delle sue voliere.
Ma quando l’uomo imparò i rudimenti dell’agricoltura, e della pastorizia, questa cominciò a perdere sempre più la sua importanza, fino quasi a scomparire in alcune popolazioni, o a rivestire caratteri fortemente simbolici in altre.
I Romani, ad esempio, consideravano la caccia come una pratica stupida, ma necessaria, per tenere sotto controllo le popolazioni di animali che devastavano i raccolti, la consideravano talmente disdicevole che ne affidavano la pratica a cacciatori professionisti, reclutati tra gli schiavi. Erano però dei veri buongustai, e un banchetto di gala non poteva considerarsi tale, senza parecchie portate di selvaggina, in particolar modo uccelli. Per procurarseli, tutte le famiglie patrizie adibivano grandi estensioni dei loro possedimenti alla loro cattura, che avveniva tramite panie, ossia con l’uso di ramoscelli cosparsi di vischio posti accanto a gabbie contenenti richiami vivi, o con reti dette ragne, sistemate accanto ai posatoi notturni. Gli uccelli catturati vivi, venivano posti in grandi voliere, e super alimentati, con miglio e zibibbo inzuppati nel latte, pastoni di fichi secchi, mirto, ginepro e tuorli d’uovo, per farli ingrassare a dismisura, per finire poi come pietanza speciale nei loro banchetti. Una cronaca del tempo ci dice che un tal Eliogabolo, adibiva più di duecento schiavi alla cattura degli uccelli, e alla cura delle sue voliere.
Solo attorno al II Secolo d. C con la sconfitta della Grecia, i nobili romani cominciarono a praticare la caccia per divertimento, ma era più che altro una sorta di rito, per ingraziarsi la dea Diana, e questa pratica non attecchì mai in modo massiccio all’interno dell’Impero. Erano invece popolarissime e particolarmente cruente, le Venationes, ossia le cacce praticate all’interno dei Circhi da gladiatori contro animali feroci, come tigri e leoni, armati solo del Venabulum, un particolare giavellotto con la punta lanceolata, vi sono documenti che affermano che per celebrazioni speciali, potevano essere uccisi anche 5000 animali in un solo giorno. (continua a pag 2)
Arco di costantino, tondi adrianei, caccia al cinghiale. Fonte: Ranuccio Banchi Bandinelli e Mario Torelli, L'arte dell'antichità classica, Etruria-Roma, Utet, Torino 1976.
Molto interessante.
Scritto da: elisa | 23 settembre 2009 a 09:49