(segue da pag 1) Con la caduta dell’Impero Romano la situazione cambiò radicalmente, i popoli invasori, i cosiddetti “barbari”, bevitori di una strana mistura chiamata “cervogia,” non praticando l’agricoltura, consideravano la caccia come l’attività primaria per il loro sostentamento, addirittura una delle divinità più importanti dei Celti era il dio Cernunno, Signore di tutti gli animali, con sembianze umane, e la testa ornata dalle corna ramificate di un cervo, che, forse per la prerogativa di quest’animale di perdere e rigenerare le corna, era preso a simbolo del rinnovamento della natura.
Per tutto il periodo delle Signorie, tutti gli animali selvatici erano esclusiva proprietà del Signore per diritto di regalia, nessuno poteva ucciderne uno, per cibarsene o per altri scopi, pena la morte, che oltretutto per dare un esempio, e terrorizzare i sudditi, era inflitta in modo molto crudele, come il supplizio della ruota, o lo scorticamento da vivo del condannato. Nonostante questo, il bracconaggio, specie di piccoli animali era molto frequente, e la ragione principale erano le condizioni alimentari al limite della sopravvivenza della gente comune, mentre, il Signore e il clero, vivevano nell’abbondanza. A riprova di ciò esiste un documento del 1300 che codifica la spettanza di cibo per ogni singolo frate di un’abazia medio - piccola della pianura Maremmana. In un giorno di “grasso” il frate aveva diritto a una libbra di pane, una forma di formaggio, una cesta di verdura, e un minimo di sei uova, due volte a settimana doveva avere carne di suino o selvaggina, secondo la disponibilità, nelle giornate di “magro” si ricorreva invece al pesce. E’ chiaro che questi viveri erano parte dei livelli che la gente comune doveva pagare.
Con l’avvento della Cavalleria, anche la caccia praticata dai nobili era vista principalmente come una prova di coraggio e di abilità, ad esempio, per la caccia la cinghiale si sceglievano di proposito i mesi autunnali o invernali, quando gli animali erano più nervosi per il periodo degli amori, ed il terreno era particolarmente pesante per le piogge o il gelo. Per la sua resistenza e combattività, il cinghiale era considerato una preda molto ambita. Al contrario di quanto la filmografia di cappa e spada ci ha fatto credere, la caccia non veniva praticata con arco o frecce, e neppure con la terribile balestra, considerate armi da vili, degne soltanto dei bracconieri, ma con la picca “gigliata” e la spada da caccia. La prima era costituita da un’asta di legno con sulla sommità una lunga punta di ferro a sezione quadra o triangolare, scanalata per favorire la perdita di sangue, e con due arresti a forma di uncino, necessari per tenere a distanza l’animale infilzato, che poteva essere sempre pericoloso. La formadella spada invece era somigliante grosso modo a una foglia di ulivo, molto corta, aveva il tagliente su ambo i lati. La caccia a questo pericoloso ungulato avveniva con l’ausilio di due mute di cani, una da seguito, costituita quasi sempre da segugi, e una da presa composta da molossi o similari. Il Signore a cavallo con i nobili al seguito attendeva che i segugi stanassero il cinghiale, e dopo cominciava l’inseguimento, e qui che si vedeva l’abilità del cacciatore nell’indirizzare l’animale in fuga verso un luogo dove i cani potessero bloccarlo, a quel punto sopraggiungevano i servi con la muta di molossi che si avventavano sull’animale tenendolo fermo. Solo allora, il cavaliere più vicino, smontava dall’arcione, e sceglieva, se affrontarlo da solo, con la spada, o la picca, o se farlo in gruppo. Considerando che un maschio di cinghiale adulto è in grado di scaraventare con una sgrugnata pesi di oltre un quintale a metri di distanza, non stupisce che molti personaggi famosi abbiano pagato con la vita questa passione, uno fra tutti, il re di Francia Filippo IV, morto cadendo dal cavallo, imbizzarritosi per la carica di un solengo. La caccia ai cervidi, avveniva invece alla “corsa” si inseguiva l’animale fino a quando stremato, si fermava circondato dai cani, e il cavaliere più vicino lo uccideva con la spada.(Continua ... parte II°)
Per tutto il periodo delle Signorie, tutti gli animali selvatici erano esclusiva proprietà del Signore per diritto di regalia, nessuno poteva ucciderne uno, per cibarsene o per altri scopi, pena la morte, che oltretutto per dare un esempio, e terrorizzare i sudditi, era inflitta in modo molto crudele, come il supplizio della ruota, o lo scorticamento da vivo del condannato. Nonostante questo, il bracconaggio, specie di piccoli animali era molto frequente, e la ragione principale erano le condizioni alimentari al limite della sopravvivenza della gente comune, mentre, il Signore e il clero, vivevano nell’abbondanza. A riprova di ciò esiste un documento del 1300 che codifica la spettanza di cibo per ogni singolo frate di un’abazia medio - piccola della pianura Maremmana. In un giorno di “grasso” il frate aveva diritto a una libbra di pane, una forma di formaggio, una cesta di verdura, e un minimo di sei uova, due volte a settimana doveva avere carne di suino o selvaggina, secondo la disponibilità, nelle giornate di “magro” si ricorreva invece al pesce. E’ chiaro che questi viveri erano parte dei livelli che la gente comune doveva pagare.
Con l’avvento della Cavalleria, anche la caccia praticata dai nobili era vista principalmente come una prova di coraggio e di abilità, ad esempio, per la caccia la cinghiale si sceglievano di proposito i mesi autunnali o invernali, quando gli animali erano più nervosi per il periodo degli amori, ed il terreno era particolarmente pesante per le piogge o il gelo. Per la sua resistenza e combattività, il cinghiale era considerato una preda molto ambita. Al contrario di quanto la filmografia di cappa e spada ci ha fatto credere, la caccia non veniva praticata con arco o frecce, e neppure con la terribile balestra, considerate armi da vili, degne soltanto dei bracconieri, ma con la picca “gigliata” e la spada da caccia. La prima era costituita da un’asta di legno con sulla sommità una lunga punta di ferro a sezione quadra o triangolare, scanalata per favorire la perdita di sangue, e con due arresti a forma di uncino, necessari per tenere a distanza l’animale infilzato, che poteva essere sempre pericoloso. La formadella spada invece era somigliante grosso modo a una foglia di ulivo, molto corta, aveva il tagliente su ambo i lati. La caccia a questo pericoloso ungulato avveniva con l’ausilio di due mute di cani, una da seguito, costituita quasi sempre da segugi, e una da presa composta da molossi o similari. Il Signore a cavallo con i nobili al seguito attendeva che i segugi stanassero il cinghiale, e dopo cominciava l’inseguimento, e qui che si vedeva l’abilità del cacciatore nell’indirizzare l’animale in fuga verso un luogo dove i cani potessero bloccarlo, a quel punto sopraggiungevano i servi con la muta di molossi che si avventavano sull’animale tenendolo fermo. Solo allora, il cavaliere più vicino, smontava dall’arcione, e sceglieva, se affrontarlo da solo, con la spada, o la picca, o se farlo in gruppo. Considerando che un maschio di cinghiale adulto è in grado di scaraventare con una sgrugnata pesi di oltre un quintale a metri di distanza, non stupisce che molti personaggi famosi abbiano pagato con la vita questa passione, uno fra tutti, il re di Francia Filippo IV, morto cadendo dal cavallo, imbizzarritosi per la carica di un solengo. La caccia ai cervidi, avveniva invece alla “corsa” si inseguiva l’animale fino a quando stremato, si fermava circondato dai cani, e il cavaliere più vicino lo uccideva con la spada.(Continua ... parte II°)
Non solo si uccidono animali per puro divertimento, ma come è successo domenica in occasione dell'apertura della caccia, ci si spara anche a vicenda per il possesso di una lepre. Siamo veramente alla pazzia. Rosa
Scritto da: rosa | 22 settembre 2009 a 15:20